TRIB.ROMA, 10.1.2012, sull’azione di responsabilità contro gli amministratori di una società di capitali, e conseguente risarcimento del danno, relativamente ai finanziamenti elargiti a società infragruppo

Il Tribunale di Roma, sez. terza civile, del 10.01-7.02.2012, n. 2446/12

riunito in camera di consiglio e così composto:

dott.ssa E. R.                                                                          Presidente

dott. M. V.                                                                              Giudice

dott.ssa A. Dell’O.                                                                 Giudice Relatore

 

ha emesso la seguente

 

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta a n. 62388 del R.G. dell’anno 2009, trattenuta in decisone nell’udienza del 19.09.2011 e vertente

TRA

FALLIMENTO V. S.r.L., in persona del Curatore avv. Mario Guido, ellett.te dom.to in Roma, presso lo studio dell’Avv.to M. G. S., che lo rappresenta e difende giusta procura estesa in calce all’atto di citazione

         – ATTORE –

E

M. A.

M. A. R.

elett.te dom.ti in Roma, presso lo Studio dell’Avv.to S. C. che lo rappresenta e difende giusta procura estesa in calce alla comparsa di risposta

E

G. C. G., elett.te dom.to in Roma, presso lo studio dell’Avv.to S. M., che lo rappresenta e difende assieme all’Avv.to G. L. del Foro di Teramo giusta procura estesa in calce alla citazione passiva

– CONVENUTI –  

Conclusioni

 All’udienza di precisazione delle conclusioni del 19.09.2011 venivano precisate le conclusioni che qui si intendono riportate e trascritte.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 15.09.2009, il Fallimento attore, evocando in giudizio i soggetti indicati in epigrafe, chiese, per i motivi in tale atto specificamente indicati, quanto segue: “in via principale: … accertare e dichiarare che i convenuti, inadempienti agli obblighi su di essi aventi in qualità di amministratori della V. s.r.l., sono responsabili ex artt. 2392 e 2394 c.c., nonché ex art. 146 L.F., per i danni subiti dalla società e dai creditori sociali; accertare e dichiarare che i danni prodotti dall’inadempimento degli amministratori sono quantificabili in € 9.776.804,00, ovvero in quella diversa somma che risulterà di giustizia; per l’effetto, condannare il sig. C. G. G., il sig. A. M. ed il sig. A. R. M., in solido tra loro, al risarcimento, dei danni indicati, oltre rivalutazione monetaria, nonché interessi legali dalla data della decisione al saldo. In via subordinata, accertare e dichiarare che i convenuti, inadempienti agli obblighi su di essi gravanti in qualità di amministratori della V. s.r.l., sono responsabili ex artt. 2392 e 2394 C.C., nonché ex art. 146 L.F., per i danni subiti dalla società e dai creditori sociali; accertare e dichiarare che i danni prodotti dall’inadempimento degli amministratori sono quantificabili in € 2.874.167,50, o  quella  diversa  somma  che risulterà  di giustizia; per l’effetto, condannare il sig. C. G. G., il sig. A. M. e il sig. A. M., in solido tra loro, al risarcimento dei danni indicati, oltre rivalutazione monetaria, nonché interessi legati dalla data della decisione al saldo”.

Costituitisi in giudizio, i convenuti chiedevano il rigetto delle pretese avversarie in quanto inammissibili nonché infondate in fatto e diritto.

Il corso istruttorio prevedeva la produzione di documentazione; infine, all’udienza del 19.09.2011 la causa veniva trattenuta in decisone con assegnazione di termini ex art. 190 c.p.c. di gg. 58+20.

Motivi della decisione

Preliminarmente, in rito, deve evidenziarsi come, non avendo le parti richiamato, in sede di precisazione delle conclusioni, alcuna istanza istruttoria, la causa possa e debba essere decisa solamente alla luce degli atti e documenti prodotti in giudizio.

A seguire, va rilevata l’inammissibilità della richiesta di rimessione in termini formulata dai convenuti M. in comparsa conclusionale al fine di produrre la fattura nr. 936/2007 emessa  dalla V.  S.r.l. nei confronti della E. S.r.l.; la parte non ha, invero,  dimostrato di non aver potuto produrre la suddetta documentazione, prima del maturare della decadenza concernenti la fase istruttoria della causa, per causa ad essa non imputabile, essendosi limitata ad allegare di essere “venuta a conoscenza (ndr. Del predetto documento) solo dopo che la causa è stata trattenuta in decisione” (cfr. pag. 4 comparsa conclusionale M).

Nel merito, la domanda della Curatela, parzialmente fondata, va accolta nei limiti di seguito indicati.

E’ opportuno analizzare separatamente i diversi profili relativi all’azione rivolta contro gli amministratori  della società V. S.r.l. rilevando  che dalle prospettazioni  di parte attrice e  dalla documentazione in atti (cfr. visura CCIA aggiornata al 4.2.2009; doc. 2 fasc. parte attrice) emerge il susseguirsi delle cariche come segue: dal 27.12.2005 all’8.6.2006 amministratore unico C. G. G., sostituito nell’incarico in data 8.6.2006 da A. M., a sua volta sostituito da A. R. M. in data 10.7.2007 fino alla data del fallimento (12.3.2009), dichiarato con sentenza n. 123/2009 del Tribunale di Roma.

Ciò posto in punto di diritto giova preliminarmente evidenziare che sugli amministratori di società gravano sia l’obbligazione generica di agire nell’espletamento dell’incarico con la diligenza tipica della funzione svolta (cfr. Cass. 16707/2004), sia gli obblighi previsti da specifiche disposizioni di legge e statuto (cfr. art. 2446-2447 per le società di capitali, nonché quelli contenuti in leggi speciali, quali gli obblighi tributari, infortunistici, etc.).

La prova dell’elemento oggettivo grava sulla società e quella dell’elemento soggettivo è regolata dall’art. 1218 c.c., il quale inverte l’onere, ponendolo a carico del debitore inadempiente; peraltro resta fermo che – a fronte dell’allegazione della violazione dell’obbligo generico di agire con diligenza – spetta alla società allegare e provare quali siano le condotte negligenti in concreto tenute dall’amministratore.

In via generale, va ancora ricordato come l’approvazione dei bilanci sociali non comporti, in nessun caso, esonero dell’azione di responsabilità (art. 2434 c.c.).

Poste tali premesse la Curatela imputa agli amministratori convenuti, in primo luogo, l’attività di finanziamento di altre società infra-gruppo, il che avrebbe prodotto il dissesto della società attrice.

Viene altresì addebitato ai convenuti la violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni a seguito dello scioglimento della società derivante dell’integrale perdita del capitale sociale.

La Curatela ha pertanto chiesto il risarcimento del pregiudizio  patrimoniale arrecato alla società dai convenuti mediante le suddette condotte quantificandolo in misura pari alla differenza tra attivo e passivo fallimentare (€ 9.776.804,00).

Orbene, prima di procedere a verificare la fondatezza dei diversi addebiti formulati dalla Curatela nei confronti dei convenuti, appare opportuno evidenziare che, come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità, l’identificazione automatica del danno imputabile all’illegittima condotta di amministratori e sindaci con la differenza tra attività e passività accertate in sede concorsuale risulta concettualmente insostenibile, atteso che lo sbilancio patrimoniale di una società insolvente può avere (e per lo più ha) cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società.

La sua concreta misura dipende, invero, spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività per natura loro sottratte al vaglio di legittimità del Giudice, che non può mai investire anche il merito delle decisioni imprenditoriali cui un rischio economico è connaturato.

I principi  da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono, del resto, l’individuazione di un preciso nesso di casualità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca; un automatismo del genere di quello sopra prospettato, quindi, non solo conduce a risultati che empiricamente paiono per lo più poco rispondenti all’effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si pone in insanabile contraddizione con i principi dianzi richiamati.

Il rifiuto di ogni automatismo nell’applicazione del suindicato criterio differenziale non vale però, di per sé solo, ad escludere che anche quel medesimo criterio possa soccorrere, in guisa di parametro di cui ancorare una liquidazione equitativa, una volta l’accertata impossibilità  di ricostruire i dati in modo così analitico da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illegittimi imputati ad amministratori della società.

In  linea  di principio, ove ricorrano i presupposti per la liquidazione del danno in via di equità, ai sensi dell’art. 1226 c.c., nulla consente di negare a priori la correttezza di un simile procedimento argomentativo, essendo l’equità per sua stessa natura legata alle circostanze specifiche di ogni singolo caso concreto.

Occorre però pur sempre che, per evitare la surrettizia reintroduzione di un criterio che di per sé non è logicamente idoneo ad  identificare  in  modo  soddisfacente  il danno  risarcibile, il

Giudice di merito dia in proposito una puntuale motivazione, sia in ordine all’effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione (magari non completa e del tutto puntuale, ma almeno sufficientemente approssimativa) degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio  sociale  dall’illegittimo  comportamento  degli  organi  della  società,  ciascuno, ove occorra, distintamente valutato, sia, comunque, in ordine alla plausibilità logica, in  rapporto alle specifiche caratteristiche del caso in esame, dell’imputazione causale a detto comportamento dell’intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato a distanza di tempo in sede concorsuale.

Nel caso di specie la Curatela non ha fornito idonei elementi probatori relativamente alla pretesa  impossibilità o estrema difficoltà di identificare gli effetti dei lamentati comportamenti illegittimi degli amministratori, singolarmente o complessivamente considerati, sul patrimonio della società, il che avrebbe consentito, laddove fossero stati riscontrati i presupposti per l’accoglimento dell’azione di responsabilità, la liquidazione equitativa del danno.

In particolar modo la Curatela non ha dimostrato che la contabilità della società, poi fallita, sia stata irregolarmente tenuta, tanto da impedire al Curatore un’esatta ricostruzione degli affari e delle operazioni sociali, essendo state denunciate irregolarità meramente formali, quali il deposito in ritardo del bilancio di esercizio 2006, la mancanza della firma del  presidente e del segretario in calce alla delibera di approvazione del bilancio 2006, la mancata vidimazione del libro giornale, la  mancata  trascrizione  del  libro inventari,  la  mancata  vidimazione  dei registri IVA vendite e acquisti e la mancata approvazione da parte dell’assemblea del bilancio di esercizio 2007.

Non è quindi sostenibile che, con riferimento al caso di specie, fosse impossibile o estremamente arduo per il Curatore individuare analiticamente le operazioni riferibili alle pretese negligenti condotte poste in essere dagli amministratori, generatrici del danno sociale.

Ciò posto, quanto alla prima condotta addebitata agli amministratori (concessione di finanziamenti ad altre società appartenenti allo stesso gruppo della fallita già in stato di insolvenza sin dal 2006, con conseguente irrecuperabilità dei relativi crediti), dalla documentazione prodotta dalla Curatela (cfr. schede contabili dei finanziamenti elargiti dalla società   fallita,  doc.  5,  6,  7,  8,  9,  12, 13,  14,  15,  16, 17, fasc.  parte attrice;  decreto  di  richiesta  di rinvio a giudizio emesso dalla Procura presso la Repubblica di Roma in data 5.7.2011 nei confronti degli odierni convenuti, depositato all’udienza del 19.9.2011 ed  ammissibile in quanto formatosi successivamente al prodursi delle decadenze previste per i mezzi istruttori dall’art. 183, 6° comma,  n.  2  e  3  c.p.c.) emerge che il convenuto G. ha concesso un  finanziamento alla società controllante F. G. S.r.l. in misura complessivamente pari ad € 31.000,00 nel periodo compreso tra 28.2.2006 ed il 29.5.2006, A. M. ha a sua volta concesso un finanziamento alla medesima società di importo complessivamente pari ad € 482.067,31 nel periodo compreso tra l 20.6.2006 ed il 28.8.2006, nonché ulteriori finanziamenti alla F. C. S.p.A. pari ad €  1.205.378,07 in data 31.12.2006, ad € 20.2332,69 in data 31.12.2006, ad € 720.036,00 nel periodo dal 23.6.2006 al 3.07.2007, alla M. S.p.A. di importo pari da € 122.500,00 nel periodo compreso tra il 25.8.2006 ed il 12.1.2007, alla T.A. S.p.a. di importo pari ed € 17.557.87 nel periodo compreso tra il 20.6.2006 ed il 22.11.2006, alla F. F. S.r.l. di importo pari ad € 23.800,87 in data 30.11.2006 ed alla M. C. S.p.a. (poi I. S.p.A.) pari ad € 83.162,00 in data 12.3.2007, infine A. R. M. ha concesso un finanziamento alla F. C. S.p.A. di importo complessivamente pari ad € 40.000,00 nel periodo tra il 25.7.2007 ed il 28.9.2007, un ulteriore finanziamento alla F. B. S.r.l. pari ad € 78.520,58 nel corso del 2008.

Orbene, in primo  luogo va evidenziato che i convenuti non negano di aver effettuato le suddette operazioni nel corso del loro incarico; con riferimento alla quantificazione dei predetti finanziamenti i convenuti M., in particolare, si sono genericamente limitati a  contestare la quantificazione del danno operata del Fallimento, ma hanno del tutto omesso di indicare le somme che, a loro giudizio, sarebbero state effettivamente elargite in favore delle società in questione.

Non sussistono, inoltre, i presupposti per accogliere la richiesta, formulata da parte convenuta (M.), di consulenza tecnica d’ufficio sul punto, che è legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova (cfr. ex multis Cass. nr. 3130/2011 ord.), come nel caso di specie.

Quanto alla dedotta mala gestio nell’effettuare le suddette operazioni va rilevato che le scelte di gestione dell’organo amministrativo possono essere indubbiamente sindacate anche nel merito laddove appaiano del tutto irragionevoli e tali da far presumere che si sia agito in conflitto di interessi con la società.

Nel caso di specie le elargizioni concesse alle predette società non risultano supportate da idonea giustificazione e da adeguate garanzie, non avendo gli amministratori offerto alcuna prova al riguardo.

In particolare i convenuti si sono difesi allegando che le predette operazioni sarebbero state giustificate dall’intento di favorire la “ristrutturazione industriale” (cfr. pag. 7 comparsa di risposta  G.)  dell’intero  gruppo  societario,  nell’ottica  di   un   interesse  dello   stesso, anche al fine di contenere i danni derivanti dall’interruzione dei finanziamenti precedentemente erogati da Unicredit e di consentire la prosecuzione dell’attività d’impresa delle suddette società.

Occorre pertanto osservare che i finanziamenti a favore di società appartenenti allo stesso gruppo non possono di per sé considerarsi legittimi perché, pur essendo ammissibili nel nostro ordinamento rapporti economico-finanziari tra società collegate o controllate, non sono tuttavia leciti comportamenti degli amministratori, quali finanziamenti senza corrispettivo o senza garanzie per la restituzione a favore della società che ha elargito il finanziamento, lesivi del patrimonio della singola società.

La legittimità di tali condotte, infatti, va valutata esclusivamente in  rapporto alla società per la quale gli amministratori agiscono e siffatte eventuali cessioni a favore di altre società infra-gruppo non possono essere consentite.

Quand’anche inserita in un “gruppo”, la singola società  di  capitali,  legata ad altre società da vincoli partecipativi, contrattuali o personali, continua, infatti, ad esprimere il vincolo, per il proprio organo amministrativo, del perseguimento dell’interesse della stessa, a beneficio di tutti i soci e dei creditori.

La giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione ha costantemente affermato l’inesistenza di un concetto di “gruppo” e di un interesse imprenditoriale di “gruppo” idoneo a legittimare il sacrificio dell’interesse della società singola, con conseguente responsabilità dell’amministratore inadempiente al dovere di operare nell’interesse della società amministrata: il sindacato del Giudice in proposito non attiene al merito delle scelte gestionali, riguardando piuttosto la violazione dei doveri connessi alla carica ricoperta, in particolare, il dovere di diligenza e il dovere di fedeltà dell’amministratore verso la società (cfr. Cass. n. 16707/2004).

Il fatto che la società inserita in un più ampio contesto di rapporti e collegamenti con altre società possa di ciò giovarsi, e la constatazione dell’inevitabile agire della stessa secondo una logica economica di più ampio respiro, hanno condotto prima la dottrina e la giurisprudenza-e quindi il legislatore con la nuova normativa espressa dagli artt. 2497 ss c.c. in tema di “direzione e coordinamento di società”- a tener conto, nella valutazione del pregiudizio arrecato alla società dalla singola operazione, dell’inserimento di questa nel più generale contesto di gruppo, degli effetti positivi per la società in conseguenza di vantaggi ricevuti dal gruppo nel suo insieme e comunque della sussistenza di contropartite al pregiudizio sofferto, nell’immediato, dalla società.

La ricerca di un contemporaneo tra gli obiettivi e le esigenze della direzione economica unitaria,  di  fatto  caratterizzante  il  fenomeno  di  gruppo,  e  in  linea  di  principio  legittima;  e l’interesse della singola società, dalla prima non comprimibile soprattutto in presenza di soci esterni al gruppo di comando, hanno condotto all’affermazione che il sacrificio può essere ritenuto legittimo solo in presenza di “vantaggi compensativi”, vale a dire solo se trova la sua contropartita in “benefici” effettivi, pur sempre ricollegabili alla politica gestionale imposta dalla controllante ( sulla teoria dei c.d. vantaggi compensativi cfr. Cass. n. 12325/1998; n. 521/1999, secondo cui “in nome dell’interesse o logica di gruppo non può essere sacrificato il patrimonio della singola società ove questa non consegua, sia pure in via indiretta, un preciso  vantaggio  da  un’altra  operazione  posta  in  essere  secondo  l’indirizzo economico unitario”; e ancor prima Cass. n. 2001/1996; tra le più recenti Cass. n. 16707/2004; Cass. n. 26325/2006 che ha precisato che l’atto compiuto dagli amministratori in nome della società non è estraneo all’oggetto sociale se idoneo, in concreto, a soddisfare un interesse economico, sia pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante della società amministrata).

L’esistenza di tali benefici – come la stessa Corte di Cassazione ha precisato – non può essere posta in termini meramente ipotetici e non può quindi essere dedotta dalla semplice appartenenza ad un gruppo, ma deve essere concreta ed oggetto di precisa dimostrazione, secondo le regole che disciplinano la prova dei fatti giuridici.

In base ai principi in tema di onere probatorio ai sensi dell’art. 2697 c.c., mentre la società che assume di essere stata danneggiata esaurisce il proprio onere probatorio fornendo la prova del fatto lesivo e delle sue conseguenze, il soggetto che tale pregiudizio abbia determinato, e il soggetto o i soggetti che vi abbiano concorso, devono invece farsi carico di allegare e dimostrare i prospettati vantaggi ancorché indiretti, per la società, atti a compensare efficacemente gli effetti negativi dell’operazione compiuta (l’onere probatorio al riguardo incombe, pertanto, sia sull’amministratore che sugli eventuali concorrenti nell’illecito: arg. ex Cass. 16707/04 cit.).

Nel caso di specie, la V. s.r.l. è stata privata di risorse finanziarie, trasferite ad altre società del gruppo ed in cambio non risulta aver ricevuto né nell’immediato, né successivamente, né direttamente alcun effettivo e idoneo vantaggio compensativo.

Le operazioni di finanziamento sono risultate inoltre gravare su una società che non è dimostrato fosse la capogruppo rispetto alle società beneficiarie, il che impone una valutazione ancor più rigorosa in ordine al fine e agli effetti concreti delle operazioni in questione.

In dottrina si è osservato, infatti, che, se il rilascio di garanzie da parte della società madre in favore di società collegate potrebbe rappresentare un atto non necessariamente eccedente il limite dell’oggetto sociale – in quanto sorretto da un interesse infragruppo –, nel caso in cui sia

la società controllata o collegata a rilasciare detta garanzia, l’atto di gestione dovrebbe assumere una diversa valutazione, non potendosi affermare che il rilascio di garanzie gratuite costituisca per la società collegata un atto idoneo al conseguimento dell’oggetto sociale.

Occorre, invero, porre in rilievo che la società controllata o collegata con il rilascio di garanzie compie un atto rischioso che potrebbe esporla a gravi perdite del capitale ed alla configurazione di una grave responsabilità degli amministratori per gli atti di gestione compiuti,

dal che deriva che, nei gruppi, il rilascio di garanzie si potrebbe considerare rientrante nell’oggetto sociale laddove esso sia compiuto dalla controllante in favore delle società figlie, mentre,  nel  caso  opposto,  lo  stesso   atto   rappresenterebbe   un  eccesso  rispetto  ai   limiti dell’oggetto sociale.

Tuttavia, anche a voler ammettere che il rilascio di garanzie rientri nell’oggetto sociale, secondo la giurisprudenza occorre sempre che l’operazione sia sorretta da un interesse concreto della controllata; in altri termini, l’estraneità dell’oggetto sociale è esclusa nel momento in cui il rilascio di garanzie comporti dei vantaggi compensativi concreti poiché solo in tal senso , il rilascio di garanzie può corrispondere all’interesse del gruppo che deve essere distinto dall’interesse della società capogruppo e di appartenenti ad esso.

Nella fattispecie sub iudice non si è, tuttavia, in presenza, non essendo stata fornita alcuna prova, dell’asserita stipula di normali contratti di finanziamento a titolo oneroso  tra  la V. S.r.l. e le società beneficiarie delle risorse della prima, con relativi piani di rientro e garanzie; è risultato, piuttosto, in modo chiaro, che la società fallita ha provveduto ad effettuare elargizioni a vario titolo (trasferimento di denaro con bonifici bancari o emissione di assegni, cessioni di crediti commerciali e finanziari) in favore di società del gruppo ed il solo fatto che mediante tali operazioni potesse essere consentita la “ripresa delle società sorelle collegate” non significa,  di per sé, che si sia trattato di operazioni favorevoli anche alla V. s.r.L..

Come si è detto, se, da una parte, il vantaggio della società può dedursi alla stregua della complessiva attività imprenditoriale svolta dalla società che ha prestato la garanzia nell’interesse di altra società del gruppo, e dunque, non è necessario che garanzia e vantaggio risultino legati da nesso di sinallagnaticità, tuttavia, nemmeno deve trattarsi di un vantaggio puramente  ipotetico; ciò perché, nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi, quello del gruppo non può essere perseguito anche a costo di compromettere quello sociale e, in definitiva, quello dei soci di minoranza e dei creditori.

La disposizione dell’art. 2497 c.c. avalla, peraltro, un’interpretazione che consente di valutare  l’esistenza  del  vantaggio  compensativo,  anche in un arco temporale piuttosto lungo;

alla luce di quanto stabilisce l’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 – secondo cui non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette – i vantaggi possono verificarsi, infatti, con effetto esimente dalla responsabilità, fino alla proposizione della domanda stessa di risarcimento.

La previsione da ultimo citata integra, come evidenziato anche da una parte della dottrina, una sorta di fattispecie di ravvedimento operoso con funzione impeditiva della condanna al risarcimento; essendo essa riversata in una norma che regola un giudizio di responsabilità civile, la si può, quindi anche considerare una fattispecie di compensatio lucri cum damno.

Tale prova, tuttavia, come si è detto, è del tutto mancata da parte degli amministratori, i quali hanno omesso di indicare gli effetti prodotti dalle singole operazioni e, dunque, anche i vantaggi realizzati per la società, limitandosi ad affermazioni del tutto apodittiche sul punto.

E’ opportuno ribadire che l’interesse del gruppo o il cd. “interesse comune”, può legittimare il compimento di operazioni che non rientrano nell’oggetto sociale della holding o di altre società del gruppo le quali, tuttavia, potrebbero avvantaggiarsi del compimento di quel determinato atto; in siffatti termini si articola al teoria, dianzi illustrata, dei cd. “vantaggi compensativi”, in virtù della quale la compatibilità dell’interesse sociale con l’interesse del gruppo deve valutarsi in termini di razionalità e coerenza di una singola scelta che, ancorché pregiudizievole per la società che la pone in essere, si articola in termini di vantaggio per la politica generale del gruppo e, nel lungo o medio periodo, anche per la società che al gruppo stesso appartiene e che potrebbe subire un pregiudizio.

Il vantaggio compensativo non è, dunque, in re ipsa in ogni operazione che può apparire dannosa per taluna società del gruppo, ma va determinato in ragione di un probabile ristoro anche futuro.

E’ mancata, tuttavia, nel caso di specie la prova rigorosa del vantaggio per la società che ha compiuto le operazioni di finanziamento formalmente estranee all’oggetto sociale, prova che doveva consistere anche nella dimostrazione che al momento i cui l’atto eccedente era stato posto in essere la società agente aveva palesemente enunciato la sussistenza di un interesse di gruppo.

E’ stato già osservato che in fattispecie quali sono quelle dei gruppi di società, che si fondano su rapporti di collegamento, certamente si configura un interesse di gruppo che è manifesto nella gestione dell’intero gruppo e non si estrinseca in singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, ma si realizza attraverso strategie economiche che prendono forma  e  significato  nel  tempo  ed  attraverso  una  molteplicità  di  atti  e  comportamenti;  di conseguenza, la valutazione dell’interesse delle singole società non può prescindere da una visione generale de gruppo.

Nel caso di collegamento tra società, l’interesse del gruppo deve essere tuttavia espresso nel compimento di atti di gestione che apparentemente potrebbero essere estranei all’oggetto sociale ed il compimento di atti che esprimano la politica di direzione e coordinamento delle società  deve eseguirsi, quindi, rendendo esplicito e conoscibile ai terzi l’interesse di gruppo, che sorregge la specifica operazione posta in essere e che esprime la cd. influenza notevole sulla partecipata.

Nella fattispecie i convenuti si sono invece limitati ad una generica allegazione circa  l’esistenza  di pretesi  vantaggi  compensativi in nome della comune appartenenza delle società al gruppo ed in relazione all’esigenza della sua ristrutturazione, ma non hanno in concreto dimostrato che le operazioni in oggetto abbiano soddisfatto un preciso interesse economico,  sia pure immediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante della società.

Non vi è prova inoltre che il danno procurato alla società sia venuto meno mediante restituzione delle somme elargite alle suddette società infra-gruppo che, come è incontestato, risultano parimenti fallite o in concordato preventivo (la F. F. s.r.l.).

Occorre, poi, evidenziare che il convenuto G. ha dedotto solo in comparsa conclusionale la pretesa corresponsabilità di tale O. I. (quale direttore di uno stabilimento della società, “con ampi poteri, fra cui quello di effettuare bonifici bancari”; cfr. pag. 9 comparsa conclusionale G.) nell’effettuazione delle operazioni riferite allo stesso G.; è noto, però, che la comparsa conclusionale di cui all’art. 190 c.p.c. ha la sola funzione di illustrare le domande e le eccezioni già ritualmente proposte, sicché ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova, Il Giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo (cfr., tra le tante, Cass. 1074/2000).

In ogni caso, è opportuno rilevare che sull’amministratore di diritto, dotato dei poteri attribuiti dalla legge e dallo statuto, incombono i doveri tipici dell’amministratore, senza che possa valere ed escluderli l’eventuale presenza di un amministratore di fatto, come sostanzialmente allegato dal convenuto G. con riguardo al suddetto I..

In merito, inoltre, a quanto dedotto dal Fallimento con riferimento al fatto che A. M. avrebbe continuato ad esercitare i poteri amministrativi anche dopo la cessazione formale del suo incarico per essere stato nominato dalla società in data 14.9.2007 “procuratore non potere di gestire conti correnti ed emettere assegni” (cfr. pag. 4 citazione), si osserva che se da una parte è documentalmente provato (cfr. visura camerale prodotta dalla Curatela, doc. 2 fasc. parte  attrice)  che  al suddetto  convenuto  fu  conferita  procura  in  relazione  ai seguenti “atti  di  ordinaria  e straordinaria amministrazione:  aprire,  utilizzare  ed  estinguere  conti  correnti bancari e/postali;  emettere assegni anche allo scoperto fino alla concorrenza di quanto  stabilito  con gli istituti di credito, girarli e trasferirli; effettuare depositi e prelievi presso qualunque istituto bancario, ente pubblico e/ privato , persona fisica o giuridica; girare effetti cambiari per l’incasso e per lo sconto, ritirarne il corrispettivo procedendo all’eventuale protesto. Fare anche se qui non espressamente specificato, tutto quanto si renderà necessario in relazione alle facoltà come sopra conferite, il tutto con promessa di rato e valido e sotto gli obblighi di legge”, dall’altra la Curatela ha del tutto mancato di dimostrare che, in virtù di tale procura, il convenuto si sia effettivamente ingerito nell’amministrazione della società in forza della suddetta procura, esercitando, dunque,  di fatto le funzioni amministrative ed elargendo i finanziamenti dianzi descritti.

L’addebito in questione nei confronti del convenuto A. M. non ha trovato, quindi, idoneo supporto probatorio nella allegazioni e nei mezzi di prova  offerti da parte attrice.

Quanto all’addebito nei confronti dei convenuti per violazione del dovere di “gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale” di cui all’art. 2486 c.c. (corrispondente nella sostanza al divieto di compiere nuove operazioni di cui al vecchio testo dell’art. 2449 c.c.) a seguito dell’integrale perdita del capitale sociale al 31.12.2006, si osserva in primo luogo che rispetto a tale addebito risulta del tutto estraneo il convenuto G., il quale, come si è detto, ha cessato il suo incarico amministrativo in data 8.6.2006.

Occorre inoltre rilevare, con riferimento ai convenuti M. (succeduti al G. nell’incarico gestorio) che ai fini dell’affermazione della responsabilità degli amministratori il Curatore aveva l’onere di specificare i singoli atti gestori concretamente adottati dagli amministratori  in  violazione  del  ricordato  dovere e di provare il danno derivato da tali comportamenti.

Qualora gli amministratori contravvengono al divieto di intraprendere nuove operazioni dopo che il capitale è andato perduto o è sceso sotto il minimale legale, il danno, eventualmente  dagli stessi risarcibile, è infatti pari al valore degli affari intrapresi successivamente alla perdita del capitale sociale solo qualora il curatore abbia provato concretamente tale danno con la verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievole per la società, poste in essere, di volta in volta, dagli amministratori; in altri termini, unicamente nel caso in cui le nuove operazioni non si siano potute individuare per mancanza della documentazione necessaria e tale  ultima  situazione  sia  imputabile  agli  organi amministrativi, il danno potrà essere dunque

determinato in via equitativa, anche in assenza di prove riguardanti l’esatta quantificazione del pregiudizio.

Nella fattispecie il Curatore ha del tutto mancato di dimostrare che l’aggravamento del dissesto sia imputabile a specifici inadempimenti degli obblighi di legge, non avendo evidenziato  in  alcun modo se il disavanzo fallimentare sia stato effettivamente conseguenza delle nuove operazioni poste in essere o se esso in parte si sarebbe ugualmente determinato, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento (cfr. in tal senso Cass. nr. 17033/2008; 16211/2007).

Anche nel caso di violazione del divieto di compiere nuove operazioni a seguito della perdita del capitale sociale rimane, infatti, valido il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il danno deve essere di volta in volta individuato con specifico riferimento alla singola fattispecie e deve essere sempre provato concretamente dal curatore con la verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievoli per la società, di volta in volta poste in essere dagli amministratori.

Tale  tesi non può che trovare, dunque, piena applicazione fatta eccezione per il caso in cui la contabilità manchi del tutto o sia stata tenuta in modo irregolare tanto da rendere impossibile effettuare una puntuale ricostruzione delle operazioni poste in essere dagli amministratori e del danno ad esse ricollegabile, ed in entrambi i casi ciò sia concretamente attribuibile a colpa degli amministratori.

Nell’odierna fattispecie la  contabilità della società, al momento dell’apertura del fallimento, era tuttavia presente e le mere irregolarità formali dianzi indicate non possono ritenersi tali da aver impedito al Curatore la ricostruzione delle singole operazioni poste in essere dopo la perdita del capitale sociale.

In tali termini l’ipotesi di un danno risarcibile per l’addebito in esame è restato privo di qualsiasi utile riscontro ed è superfluo ribadire che tale verifica non può essere demandata all’attività di un c.t.u., pure inammissibilmente richiesta dalla difesa della curatela anche in relazione alla contestazione de qua al  fine di accertare  (scilicet: individuare e ricercare)  i danni derivanti dall’inerzia degli amministratori nell’adottare le misure conseguenti alla perdita del capitale sociale.

In applicazione dei suddetti principi ciascuno dei convenuti va pertanto condannato al risarcimento, in favore della Curatela, delle somme pari agli importi erogati in favore della società infra-gruppo, come dianzi indicati, nel periodo in cui essi hanno rispettivamente esercitato la carica gestoria; in particolare, il convenuto G. va condannato a corrispondere, in favore     del   Fallimento   attore,   la   somma   pari  ad  €  31.000,00,   A.   M.    va   condannato

a corrispondere, in favore del Fallimento attore, la somma complessivamente pari ad € 2.674.735,00 A. R. M.  va condannato a corrispondere, in favore del Fallimento attore, la somma complessivamente pari ad € 118.520,00.

Il risarcimento del danno in questione riveste natura di debito di valore e non di debito di valuta, il quale e, pertanto, sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione (cfr. Cass. 11018/2005).

Sulle somme predette perciò, va calcolata la rivalutazione, con decorrenza dal 12.3.2009 (data del Fallimento della V. s.r.l. in liq., che segna il definitivo consolidarsi del danno arrecato alla società) ad oggi in base agli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, e con ulteriore aggiunta, quale lucro cessante, degli interessi compensativi per la ritardata reintegrazione patrimoniale al tasso del 2% (determinato in via equitativa anche in considerazione delle oscillazioni del tasso legale nel periodo) computati sulle somme originarie via via rivalutate (Cass. n. 1712/1995, 7192/1997, 2796/2000) dal 12.3.2009.

Va precisato, invero, che tale danno da lucro cessante richiede che gli interessi suddetti non debbono essere calcolati sulla somma originaria o sulla somma rivalutata al momento della liquidazione, ma debbono computarsi sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno ovvero in base ad un indice di rivalutazione medio (Cass. n. 2796/2000).

Dalla decisione il credito si trasforma in obbligazione di valuta e sullo stesso decorrono gli interessi legali sino all’effettivo pagamento.

Il convenuto A. M., rimasto soccombente, deve essere inoltre condannato a rimborsare alla curatela attrice vittoriosa (ammessa al gratuito patrocinio) le spese processuali, liquidate d’ufficio, in difetto di notula, come da dispositivo, sulla base dei parametri contemplati dalla vigente Tariffa, tenendo conto della natura e del valore della controversia (con riferimento alla somma attribuita a parte attrice per l’individuazione dello scaglione di riferimento), della qualità e quantità delle questioni trattate e dall’attività complessivamente svolta dai difensori, compreso il rimborso forfetario delle spese generali di cui alla tariffa professionale, credito che, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, consegue (e la cui misura è determinata) per legge, sicché spetta automaticamente al professionista, anche in assenza di allegazione specifica e di domanda, dovendosi, quest’ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali (cfr. Cass. . 4209/2010, 23053/2009, 8238/2007, 146/2006, 20321/2005, 603/2003).

Con riguardo al regolamento delle spese processuali tra il Fallimento attore ed i convenuti C. G. G. e A. R. M., in relazione alla consistente riduzione dell’importo riconosciuto alla Curatela e stante l’esito di numerose questioni sollevate da parte attrice, ma rivelatesi infondate, ritiene, invece, il Tribunale di compensare integralmente le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale di Roma, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando nel procedimento nr.  R.G.  62388/2009, in contraddittorio tra le parti indicate in epigrafe, disattesa ogni altra istanza, eccezione e difesa, così provvede:

–       condanna C. G. G., per la causale di cui in motivazione, al pagamento, in  favore del  Fallimento  V. s.r.l.,  della complessiva  somma  di  € 31.000,00,  oltre  interessi  e rivalutazione come in motivazione;

–       condanna A. M., per la causale di cui in motivazione, al pagamento, in favore del Fallimento V. s.r.l., della complessiva somma di € 2.674.735,00 oltre interessi e rivalutazione come in motivazione;

–       condanna A. R. M., per la causale di cui in motivazione, al pagamento, in favore del Fallimento  V.  s.r.l.,  della  complessiva  somma  di  €  118.520,00,  oltre  interessi e rivalutazione come in motivazione;

–        condanna il convenuto A. M. a rifondere alla curatela attrice, ammessa al gratuito patrocinio, le spese del presente giudizio, che liquida in € 348,00 per spese, € 3.200,00 per diritti ed € 15.000,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA comune dovuti per legge;

–        dispone che il pagamento delle spese di cui all’art. 131 del d.lgs. 115/2002, prenotate a debito o anticipate dall’Erario, in esse compresi gli onorari e le spese del difensore che saranno liquidati ai sensi dell’art. 82 d.lgs. cit., sia eseguito a favore dello Stato:

–        compensa integralmente  le  spese   di lite  tra  il  Fallimento  ed  i  convenuti  C. G. G.  e  A. R. M..

Così è deciso in Roma, nella camera di consiglio della III° sezione civile del Tribunale, il giorno 10.1.2012

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